sabato 19 febbraio 2022

Quando sono debole, è allora che sono forte! (1)

San Paolo apostolo ci delizia con un sorprendente paradosso: “quando sono debole, è allora che sono forte.” (2Cor. 12,10). Come sia possibile sentirsi forti – o meglio, essere consapevoli di essere forti – quando si è deboli, può apparire come un mistero. La debolezza ci distrugge, annienta il nostro orgoglio. Cerchiamo di evitare in tutti i modi di apparire deboli o di metterci in situazioni che potrebbero mettere in risalto la nostra debolezza. Così scegliamo le strade più semplici (anche se meno oneste), andiamo sul sicuro, ci avventuriamo solo su vie ben conosciute, ingigantiamo le nostre poche conoscenze per sembrare sapienti, ci nascondiamo. Eppure la debolezza prima o poi ci prende, e allora, se non siamo saldi nella fede, cadiamo nell’angoscia o nella paura. L’amor proprio, ferito, ci fa compiere gesti sciocchi, incapace di accettare il fallimento o la sofferenza. Questo è il modo peggiore per vivere le prove. Perché le facciamo diventare, con le nostre stesse mani, insopportabili. Nel dirci che nella debolezza c’è la forza, San Paolo ci invita innanzi tutto a riconoscere limpidamente la nostra stessa debolezza. Non ha senso tentare di nasconderla o fuggirla, perché in qualche modo emergerà comunque. Vivere mentendo, volendo apparire ciò che non si è, è già in sé un fardello difficilissimo da portare che accrescerà ancor di più la sofferenza interiore. Soprattutto, occorre rendersi conto che si possono anche ingannare gli uomini, ma non Dio. L’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore. (1Samuele 16,7).

Lo sforzo di apparire forti e calmi in ogni circostanza è dunque uno sforzo inutile, e prima ci si rende conto di avere dei limiti – e quindi di aver bisogno di aiuto – prima si getteranno le giuste basi per tornare alla pace. Ma torniamo a questo strano binomio debolezza-forza. Umanamente parlando non ha alcun senso, perché la debolezza rappresenta un difetto, un qualcosa che non vorremmo mai sperimentare. Rassegnati, tuttavia, alla nostra debolezza, e finalmente pronti ad ammettere che essa è parte di noi, si aprono diverse strade: 
1) Vivere la debolezza umanamente. Cercando le soluzioni più disparate. Spinti dalla paura, dalla disperazione o dall’umiliazione, si diventa pronti a qualsiasi sotterfugio o compromesso pur di nascondere la debolezza, pur di uscire dalla situazione incriminata che ci rivela la nostra piccolezza. Oppure, non trovando soluzioni, si cade nella disperazione e si perde ogni pace. Ansie e preoccupazioni diventano compagne inseparabili (per approfondire, vedi anche come superare lo stress con la preghiera). Non si combatte contro il problema, ma si cerca di sotterrarlo distraendosi, cercando il divertimento sfrenato, non sopportando il silenzio e la solitudine perché in quell’assenza di rumore non si può che ascoltare sé stessi e il proprio tormento.
2) La debolezza con Dio. La debolezza, con Dio, diventa forza. Perché? Anzitutto perché, come visto sopra, riconoscere la propria debolezza comporta necessariamente un atto di umiltà. Dio si fa vicino all’umile, mentre si allontana dai superbi. Chi vuole l’amicizia di Dio dovrà dunque, prima di ogni altra cosa, cercare l’umiltà, riconoscere – appunto – la propria debolezza. Essa non va solo riconosciuta, ma anche accettata.

Infatti il salmista si lamenta del proprio peccato ed esclama: “Riconosco la mia colpa, il mio peccato mi sta sempre dinanzi”, ma poi si consola, pur sapendosi peccatore, e si rivolge al Signore con slancio filiale: “Ma tu vuoi la sincerità del cuore e nell’intimo m’insegni la sapienza…Fammi sentire gioia e letizia, esulteranno le ossa che hai spezzato. Distogli lo sguardo dai miei peccati, cancella tutte le mie colpe. Crea in me, o Dio, un cuore puro.” (Sal. 50).
Come possiamo notare, la sincerità del cuore (=ammettere il proprio peccato, la propria debolezza), e l’accettazione dei propri limiti (il salmista chiede a Dio il perdono con fiducia, senza cercare giustificazioni o inutili scuse per il suo comportamento) sono la premessa per ritrovare la serenità. E quindi conclude: “un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi.”

Dio, per entrare in cuore, ha bisogno dell’umiltà del cuore medesimo, perché un cuore superbo, ossia pieno di sé, non lascia spazio al Signore.
Chi confida in sé stesso, molto semplicemente, non è capace di affidarsi a Dio. Chi confida in sé stesso, dunque, non tollera di poter fallire. Non a caso, il superbo tende ad incolpare sempre gli altri per gli sbagli commessi.
Anche Gesù pone l’accento sulla necessità di riconoscersi peccatori: “Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano…Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato.” (Lc 18,13).






Quando pregate, dovete dedicare alla preghiera un tempo più lungo, perché la preghiera è un colloquio con Dio. La preghiera vi fa vedere tutto più chiaro. La preghiera vi fa sperimentare la gioia vera. La preghiera vi insegna a piangere. La preghiera vi fa fiorire. La preghiera non è uno scherzo, è un vero colloquio con Dio. Quanti sarebbero felici di sapere cos’è la preghiera! Voi adesso lo sapete: provate a praticarla. (Messaggio dato al gruppo di preghiera del 20 Ottobre 1984).

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